Ken Knabb – Lo Zen e i Situazionisti

Care lettrici e lettori, pubblico il secondo intervento della serie di articoli non scritti da me ma solo riprodotti con il consenso dell’autore, l’americano Ken Knabb.

Si tratta, infatti, della collaborazione del mio blog con il sito internet di Knabb, “Bureau of Public Secrets”, che raccoglie gran parte della produzione di saggi dell’autore americano.

In realtà “Bureau of Public Secrets” è anche un contenitore di articoli e saggi di altri autori, in risonanza con il pensiero di Knabb sulle tematiche spirituali e sociali trattate.

Abbiamo già pubblicato infatti un intervento del poeta ed ecologista americano Gary Snider, un breve saggio sul rapporto tra il buddhismo zen e le idee anarchiche.

Ma chi è Ken Knabb?

Ken Knabb nacque nel 1945, in Louisiana, ma si trasferì negli anni ’60 a Berkeley, in California, e partecipo’ attivamente al movimento contro culturale sviluppatosi in quegli anni, abbracciando anche la pratica buddhista Zen, all’epoca molto di “moda”.

Non dimentichiamo che pochi anni prima, proprio in California, a San Francisco, nel 1957, sorse il primo tempio Zen dell”Occidente moderno.

Ken in particolare si occupo’ di traduzioni degli scritti della “Internazionale Situazionista” e in particolare di Guy Debord; si trattava di un movimento culturale di ispirazione anarchica individualista (notevoli infatti i riferimenti a Max Stirner) pur con riferimenti anche ad un comunismo anarchico.

Il movimento situazionista fu, tra l’altro, fondato proprio in Liguria, in un piccolo paese della provincia di Imperia, a Cosio di Arroscia, nel 1957: era composto principalmente da artisti, filosofi e sociologi europei, italiani, russi e francesi.

Tutto il fermento culturale di quegli anni ’60, così densi di significati sociali e politici innovativi, aveva come “serbatoio” e ”carburante” il pensiero e le idee, espresse dalla cosiddetta “Beat Generation”, soprattutto con la poesia, tra la seconda parte degli anni 50 e la prima parte degli anni 60.

In questo secondo articolo della serie ospito un intervento critico di Knabb sul cosiddetto “buddhismo impegnato socialmente”.

Tornerò sull’argomento con un articolo dedicato alla “Buddhist Peace Fellowship”, l’organizzazione buddhista occidentale più diffusa che pratica il “buddhismo socialmente impegnato”.

“Dure lezioni per il Buddhismo impegnato”
di Ken Knabb (1993)

“In piena guerra del Vietnam, Thich Nhat Hanh, accompagnato da alcuni monaci, religiosi e laici buddhisti, rompeva con una tradizione apolitica vecchia di 2.500 anni fondando l’Ordine Tiep Hien, cercando in questo modo di riavvicinare le pratiche etiche e contemplative buddhiste alle questioni sociali.

I membri dell’ordine organizzarono delle manifestazioni contro la guerra, il sostegno ai renitenti e diversi progetti di soccorso e di assistenza sociale. Benché questo movimento sia stato presto represso nel Vietnam, Nhat Hanh ha continuato a condurre attività simili durante il suo esilio in Francia, e la nozione di “buddismo impegnato” si è diffusa ovunque.

Una delle sue principali espressioni in Occidente, il Buddhist Peace Fellowship, si propone di “apportare una prospettiva buddhista agli odierni movimenti pacifisti, ecologisti, di azione sociale” e “di sollevare domande di ordine ecologico, femminista, pacifista e di giustizia sociale presso i buddhisti occidentali”.

L’apparizione di un buddhismo impegnato è uno sviluppo salutare. Malgrado i guasti che accomuna il buddhismo con tutte le religioni (superstizione, gerarchia, maschilismo, complicità con l’ordine stabilito), ha sempre avuto un cuore di penetrazione autentica, basato sulla pratica della meditazione.

È questo cuore vitale, come il fatto che il buddhismo generalmente non impone dei dogmi, come fanno le religioni occidentali, che gli ha permesso di radicarsi con facilità in Occidente, compresi gli ambienti più sofisticati delle differenti culture.

Quelli che lottano per il cambiamento sociale potrebbero mettere a profitto l’attenzione consapevole, l’equanimità e l’autodisciplina favorita dalla pratica buddhista; e non farebbe alcun male ai buddhisti apolitici confrontarsi con le questioni sociali.

L’IMPEGNO SOCIALE

Però fino ad ora la coscienza sociale dei buddhisti impegnati è rimasta estremamente limitata. Se hanno cominciato a riconoscere certe realtà sociali flagranti, dimostrano poca comprensione alle loro cause o alle possibili soluzioni. Per alcuni, l’impegno sociale si riduce semplicemente ad alcuni lavori caritatevoli e benevoli. Per altri, ispirati forse dalle osservazioni di Nhat Hanh sulla produzione di armi o sulla carestia del Terzo Mondo, si risolvono a non mangiare carne o a non coinvolgersi con la produzione di armamenti.

Tali gesti possono avere un significato personale, ma i loro effetti reali sulla crisi mondiale sono trascurabili. Se milioni di poveri muoiono di fame nel Terzo Mondo, non è per mancanza di nutrimento, ma perché non vi sono benefici da ricavarne.
Finché sarà possibile arricchirsi fabbricando armi o devastando l’ambiente, qualcuno lo farà, malgrado gli appelli morali alla buona volontà.
E se certe persone coscienziose rifiutano di prendervi parte, una moltitudine di altri spingeranno per prendere il loro posto.

Altri, sentendo che tali gesti individuali non bastano, si sono avventurati in attività più “politiche”. Ma facendo questo, non hanno fatto che seguire gruppi pacifisti, ecologisti e progressisti, le cui tattiche e prospettive sono abbastanza limitate.

LA PROPRIETA’ PRIVATA E IL SISTEMA CAPITALISTICO

A parte rare eccezioni, questi gruppi ritengono il sistema sociale attuale come qualcosa di ovvio, manovrando al suo interno per promuovere obiettivi particolari, spesso a spese di altre cause. Come hanno detto i situazionisti: “Le opposizioni parcellari sono come i denti delle ruote dentate, aderiscono e fanno girare la macchina, dello spettacolo, del potere”.

Alcuni buddhisti impegnati si rendono conto che è opportuno superare il sistema attuale; ma, senza giungere a riconoscere fino a che punto è solidamente impiantato nella sua tendenza a perpetuarsi all’infinito, immaginano di poter modificarlo gradualmente dall’interno, urtando così contro delle contraddizioni costanti.

Uno dei precetti dell’Ordine Tiep Hien dice:
Non possedete nulla che appartenga ad altri. Rispettate la proprietà privata, ma impedite ogni profitto procurato dalla sofferenza di altri esseri”.

Come è possibile impedire lo sfruttamento della sofferenza se si “rispetta” la proprietà, nella misura in cui quella è l’espressione dello sfruttamento?

E che fare se i proprietari rifiutano di abbandonare i loro beni pacificamente?

Se i buddhisti impegnati non si sono opposti esplicitamente al sistema socio-economico e si sono limitati a cercare di alleggerire qualcuno dei suoi effetti maggiormente devastatori è per due ragioni.
In primo luogo, non comprendono bene qual è la posta in gioco. Resistendo a qualsiasi analisi che sembra “seminare la divisione”, come possono sperare di comprendere un sistema fondato sulla divisione in classi e sul conflitto d’interessi?

Come quasi tutti hanno piattamente accettato la versione ufficiale, secondo la quale il crollo dei regimi del capitalismo di Stato staliniani in Russia e nell’Europa dell’Est avrebbe dimostrato il carattere inevitabile della forma capitalistica occidentale.

LA VIOLENZA DEL RIBELLE E QUELLA DELLO STATO

Inoltre, come il movimento pacifista in generale, considerano che bisogna evitare la “violenza” ad ogni costo. Questa attitudine non è solamente semplicista, è ipocrita: loro stessi tacitamente fanno assegnamento su ogni sorta di violenza di Stato (esercito, polizia, prigioni) per proteggere i propri congiunti e le proprietà, e sicuramente non si sottometteranno passivamente alle condizioni contro cui rinfacciano ad altri di essersi rivoltati.

In pratica, il loro pacifismo si rivela generalmente più tollerante nei confronti dell’ordine dominante che nei confronti dei suoi avversari. Gli stessi organizzatori che rifiutano i partecipanti che possono intaccare la purezza delle loro manifestazioni nonviolente, si vantano spesso per aver sviluppato delle intese amichevoli con la polizia. Non è granché sorprendente che i dissidenti che hanno avuto esperienze differenti con la polizia siano poco impressionati di fronte a tale genere di “prospettiva buddhista”.

È vero che diverse forme di lotta violenta, come il terrorismo o i colpi di Stato di minoranze, sono incompatibili con il tipo di organizzazione aperta e partecipativa che è necessaria per creare una società mondiale realmente libera.
Una rivoluzione antigerarchica non può essere realizzata che dall’insieme del popolo, non attraverso qualche gruppo che pretende di agire per conto loro; e una maggioranza così schiacciante non avrebbe alcun bisogno di utilizzare la forza se non per neutralizzare quegli elementi della minoranza dirigente che tenterebbero eventualmente di mantenere il potere con la violenza. Ma ogni cambiamento sociale comporta inevitabilmente degli aspetti violenti.

Non sarebbe più onesto riconoscerlo, cercando di minimizzare il più possibile tale violenza?

Questo dogmatismo nonviolento di per sé sospetto diviene francamente ridicolo quando si oppone pure a ogni forma di “violenza spirituale”. Certamente non vi è nulla da ridire sul fatto di cercare di agire “senza la collera nel cuore”, evitando di essere presi nel circolo vizioso dell’odio e della vendetta. Ma in pratica, tale ideale spesso non serve che da pretesto per rifiutare ogni analisi e ogni critica penetranti, qualificandole come “colleriche” o “arroganti”.

In seguito alla considerazione, certamente corretta, del fallimento del gauchisme tradizionale, i buddhisti impegnati hanno concluso che ogni tattica “conflittuale” e ogni teoria “che semina la divisione” sono incaute e fuori luogo.
Questo atteggiamento finisce per non tenere in alcun conto la storia delle lotte sociali, ignorando completamente un gran numero di esperienze ricche d’insegnamento (gli esperimenti anarchici di organizzazione sociale durante la rivoluzione spagnola del 1936, per esempio, o le tattiche situazioniste che hanno provocato la rivolta del maggio 1968 in Francia), non lasciando a loro che condividere le insulsaggini “new age” più inoffensive e promuovere azioni collettive più che tiepide.

È sorprendente che persone che sono capaci di apprezzare il vigore di certi aneddoti zen non arrivino a rendersi conto che queste tattiche di risveglio potrebbero essere messe su altri terreni.

LO ZEN E I SITUAZIONISTI

Malgrado tutte le loro evidenti differenze, vi sono analogie interessanti tra i metodi zen e quelli situazionisti: entrambi insistono sulla realizzazione delle loro idee piuttosto che su un’accettazione passiva di una specifica dottrina.

Entrambi impiegano mezzi energici per scuotere le abitudini mentali, sino al rigetto di qualsiasi dialogo inutile e al rifiuto di offrire alternative positive prefabbricate. Ed entrambi sono accusati di “negatività”.

Un vecchio detto zen dice: “Se incontri il Buddha, uccidilo”. I buddhisti impegnati sono riusciti a “uccidere” Thich Nhat Hanh nella loro mente?
Oppure sono ancora attaccati alla sua immagine, affascinati dalla sua mistica, consumando passivamente le sue opere e accettando i suoi pareri senza spirito critico?
Nhat Hanh ha un bell’essere una persona meravigliosa e i suoi scritti hanno un bell’essere ispiranti e illuminanti sotto diversi aspetti: la sua analisi sociale resta ingenua.
Se sembra radicale, non è che in confronto ad altri buddhisti che, in maggioranza, sono ancora più ingenui.

Molti fra i suoi ammiratori resteranno urtati, fors’anche scandalizzati, di poter pretendere di criticare un personaggio di simile santità, cercando di negare valore a questo testo, classificandolo come la manifestazione di un’ideologia gauchiste violenta e bizzarra, supponendo (a torto) che è stato scritto da qualcuno che non ha alcuna esperienza della meditazione buddista.

ESISTONO ALTERNATIVE?

Altri potrebbero riconoscere la pertinenza di alcune di queste osservazioni, ma domanderanno subito: “C’è un’alternativa pratica e costruttiva, o non fai altro che criticare? Che proponi di fare?”

Non c’è bisogno di essere capomastri per mostrare che il tetto perde. Se questa critica riuscirà a stimolare qualcuno a riflettere, a vedere più in là di qualche illusione, finanche a elaborare da sé nuovi progetti, non è già un risultato veramente pratico?
Quante azioni costruttive ottengono altrettanto?

Circa la domanda su ciò che si dovrebbe fare: la cosa più importante è smettere di aspettare che altri dicano ciò che è bene fare. Meglio fare propri errori che seguire il maestro più saggio.

Non solo è più interessante, ma è anche più efficace fare esperienze dirette, per quanto possano essere modeste, che essere un numero in un reggimento di numeri. È bene contestare ogni gerarchia, ma prima di tutto quelle in cui si è direttamente implicati.

Una delle scritte del maggio 1968 diceva: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”.
Fin quando restano nell’ambito dell’ordine stabilito, le “alternative costruttive” sono quanto meno limitate, provvisorie, ambigue; in questo modo tendono ad essere recuperate e divenire una parte del problema.

Sicuramente siamo obbligati a occuparci di certe urgenze come la guerra o le minacce contro l’ambiente. Ma se lo facciamo accettando i termini del sistema, ci limitiamo solamente a reagire verso ogni nuovo problema che produce, senza mai trasformarlo dalle fondamenta.

Non potremo uscire da una vita ridotta alla semplice sopravvivenza che rifiutando il suo ricatto, contestando un’organizzazione sociale che, in ultima analisi, reprime ogni possibilità di vita. I movimenti che si limitano a semplici proteste difensive e timide non raggiungeranno altro che il povero obiettivo di garantire la semplice sopravvivenza.”
 

 

Hae Myong

Hae Myong
Inizia a studiare da autodidatta il Taoismo cinese nel 2004 e presto si avvicina allo studio della cultura zen e buddhista.
Nel 2006 inizia a praticare presso l’Associazione “Bodhidharma” di Lerici del monaco buddhista Tae Hye Sunim, di ordinazione coreana e birmana, una sorta di pratica che accoglie aspetti della tradizione Theravada e della tradizione Mahayana del Buddhismo.

Per alcuni anni guida anche le pratiche del gruppo genovese di tale comunita’ religiosa presso i locali dell’Associazione “UnSoloCielo” in via San Lorenzo a Genova.

Nel 2009 riceve a Seoul dal monaco Tae Hye Sunim i cinque precetti Buddhisti e assume il nome di Dharma di Mu Mun.

Nel 2009 risiede per alcune settimane in Corea presso i principali templi dell’Ordine Jogye. Nel 2010 e 2012 visita alcuni templi in Thailandia.

Nel 2014 inizia a studiare presso l’Institute for Buddhist Studies USA (IBS) dell’Ordine coreano zen Taego-jong affiliato con Dong Bang College of Korea.

Nel 2015 partecipa ad alcuni ritiri spirituali organizzati dall’Ordine Taego in USA.

Nel 2016 riceve il diploma dall’IBS dopo aver terminato i due anni di studi ed aver superato tutti gli esami e la tesi finale.

Nel 2017 riceve i precetti del Bodhisattva presso l’Associazione Bodhidharma in Lerici.

Nel 2018 viene ordinato in Polonia Dharma Teacher dall’Ordine Taego-jong e riceve il nome di Dharma di Reverendo Hae Myong.

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